A chi non è capitato almeno una volta di trovare conforto nel cibo in momenti di ansia, stress, nervosismo, tristezza, solitudine o noia?
E chi, invece, non ha mai sperimentato nella vita il senso di sacrificio, deprivazione o costrizione imposto dalla dieta?
Questo accade perché cibo ed emozioni sono legati da uno stretto rapporto di interdipendenza e di reciproco condizionamento.
L’alimentazione è strettamente connessa con la vita emotiva: il cibo risulta ‘condito’ da diversi aspetti psicologici (valori, ideologie, credenze religiose e culturali) e l’alimentazione assume, quindi, un significato che va oltre l’aspetto semplicemente fisiologico.
Fin dalla nascita il rapporto con il cibo si intreccia con le esperienze affettive legate ai primi rapporti significativi, se si pensa all’allattamento, allo svezzamento ed a tutti i vissuti emotivi che caratterizzano e condizionano tali esperienze.
I pasti sono un punto di riferimento importante per tutti, scandiscono i ritmi della giornata ed ogni evento importante della nostra vita sembra essere accompagnato da banchetti alimentari attraverso cui socializziamo e festeggiamo.
Diverse ricerche hanno evidenziato la stretta relazione esistente tra cibo ed emozioni e quanto il cibo possa essere utilizzato per “gestire” le emozioni: il cibo diventa un anestetico con cui si cercano di eliminare frustrazioni e malesseri di varia natura, una scorciatoia con cui si tenta di riempire un vuoto e superare un disagio che per qualche ragione si è creato dentro di noi.
Mangiare non significa semplicemente soddisfare la sensazione fisica della fame. Non si mangia solo per placare il brontolio dello stomaco, ma anche per soddisfare o mettere a tacere le proprie emozioni.
Come si origina la relazione tra cibo ed emozioni?
Dal momento in cui un genitore offre per la prima volta un biscotto o una caramella al proprio bambino per consolarlo, il cibo diventa un modo per nutrire, oltre che il corpo, anche lo spirito.
Fin dai tempi antichi, il cibo viene usato per festeggiare, per calmare, per alleviare la noia, oltre che come consolazione nei momenti di tristezza e di angoscia. Questo tipo di comportamento anche al giorno d’oggi non è insolito: premiarsi con del cioccolato o con dei biscotti al termine di un lavoro faticoso, bere un bicchiere di vino o di birra per essere più socievoli, sono tutti comportamenti frequenti e comprensibili.
Il problema sorge nel momento in cui le abitudini alimentari legate agli stati emotivi della persona mettono a rischio la sua salute psicofisica, nel momento in cui (di fronte ad alcuni stati d’animo quali l’ansia, la confusione, la tristezza, la rabbia, la noia, l’agitazione, il senso di inadeguatezza, di solitudine e di stanchezza) ci rifugiamo nel cibo e questo innesca dei meccanismi automatici di regolazione: mi sento triste, non riesco a capire per quale motivo, mangio qualcosa che mi tiri su (cioccolata, pane, pizza) così non mi sento più tanto depressa e il senso di tristezza si dissolve.
Attenzione: in questi casi può accadere così che, ogni volta che sento quel senso di tristezza, corro a procurami del cibo, perché ho appena scoperto che, se mangio, la tristezza sfuma, si alleggerisce.
Ognuno di noi può trovare il proprio modo di usare il cibo per non sentire e non sperimentare le proprie emozioni negative. Quel tipo di cibo produce un innalzamento dell’umore ma, invece di affrontare i motivi per i quali mi sento un po’ giù, mangio e provo a non pensarci.
Conseguenza inevitabile di tali premesse è che qualsiasi programma di dimagrimento o di mantenimento di un rapporto alimentare sano ed equilibrato subisce l’interferenza ed il condizionamento del mondo interiore (le emozioni) che, più o meno prepotentemente, chiede di avere espressione ed ascolto. In questi casi, incapaci di affrontare le emozioni che sperimentiamo, mangiamo per dar loro sfogo, così che il cibo diventa un mezzo per gestire emozioni negative, con la conseguenza però che decentriamo la nostra attenzione da ciò che ci crea malessere (le emozioni negative, appunto), rendendone impossibile una risoluzione: ci si focalizza sulle sensazioni piacevoli legate all’assunzione di cibo che, seppure per un tempo breve, riesce a placare il nostro malessere, per poi ritrovarci a gestire ulteriori emozioni negative quali, ad esempio, il senso di colpa o la rabbia per aver trasgredito o mangiato troppo, incapaci di superare un momento di difficoltà senza ricorrere al cibo.
In sintesi, a partire dall’esistente relazione tra cibo ed emozioni, tali modalità errate di gestione dei vissuti emotivi negativi se da una parte non eliminano le cause che sono all’origine del malessere emotivo che proviamo, dall’altra in molti casi ne determinano il mantenimento e l’amplificazione.
E’ per questo motivo che, negli ultimi anni, si sta sempre più diffondendo la cosiddetta “dipendenza da cibo”, caratterizzata da fenomeni di abuso nel consumo del cibo, che hanno evidentemente a che fare con un rapporto malsano che si ha con esso, a partire da una malsana gestione del disagio psicologico sperimentato: anoressia, bulimia, ortoressia sono forme di dipendenza da cibo che si stanno diffondendo a macchia d’olio nella popolazione, insinuandosi subdolamente nella psiche delle persone più fragili, vulnerabili, sensibili; allo stesso modo, anche l’obesità ha senza dubbio a che fare con l’assetto emotivo della persona.